Carlo Franza
Ugo Galetti (1898-1969), il pittore che ha salvato i valori della tradizione
Articolo di Carlo Frazza pubblicato su
Il Cittadino di Monza il 20 maggio 2021
Da un articolo di Carlo Frazza pubblicato su
www.ilcittadinomb.it il 20 maggio 2021
È trascorso poco più di mezzo secolo dalla scomparsa di Ugo Galetti, il pittore cresciuto a Monza e diventato allievo di Anselmo Bucci. Carlo Franza ripercorre la sua carriera e le sue scelte stilistiche.Alcuni giorni a motivo di una perizia svolta per il tribunale di Milano - procura della Repubblica - su un’opera d’arte, e dovendo essere sentito dal giudice nel corso di un’udienza in un’aula al terzo piano dell’edificio palazzo di giustizia, ebbene in quell’aula alle spalle del giudice vi era un maestoso affresco di Anselmo Bucci sul tema della Giustizia. Un nome di chiara fama quello di Anselmo Bucci, convergente sul famosissimo gruppo “Novecento”, composto inizialmente dai pittori Leonardo Dudreville, Achille Funi, Gianluigi Malerba, Piero Marussig, Ubaldo Oppi, Anselmo Bucci e Mario Sironi.
I motivi per cui viene scelta questa denominazione del gruppo sono stati spiegati dalla stessa Margherita Sarfatti nel suo libro Storia della pittura moderna (alle pagg. 123-126): “Ora accadde che un gruppo di artisti amici discutesse un giorno, in Milano, dell’arte italiana e delle sue tradizioni. Fra questi artisti, uno - Anselmo Bucci - che per essere più vissuto all’estero più aveva dei fatti di casa nostra una visione larga e panoramica, si attardò a spiegare lungamente il carattere inconfondibile (come oggi si dice) dell’arte plastica italiana nei secoli: nel Quattrocento, nel Cinquecento, nel Seicento.
Nomi intraducibili, come la fisionomia dei nostri più intimi e cari. Non sono cifre soltanto aritmetiche, non sono termini vaghi, che designino soltanto un’epoca composta di 100 anni, ma concretano una realtà tangibile nel tempo e nello spazio. Non vi è ascoltatore distratto, che all’udirle non evochi una visione storica sfolgorante e completa, per quanto riguarda la vita dello spirito e del pensiero, ancor più che le vicende politiche. E, nella vita spirituale, la evocazione contempla specialmente la vita dell’arte, e, in modo particolare, la creazione plastica.”
E osservando l’opera di Anselmo Bucci mi è stato facile riandare al nome di Ugo Galetti (1898-1969) un artista da rivalutare nobilmente, che nato a Mantova, trascorse l’infanzia e la giovinezza a Monza perché la sua famiglia qui si era trasferita intorno al 1900, e che dopo il 1936 si spostò a Milano nel quartiere di Brera dove lavorò e visse fino alla morte.
“Ma il suo vero maestro è stato Anselmo Bucci che aveva rinnovato quell’ambiente, è Bucci che lo aveva iniziato al vero viaggio dell’arte”, parola del collega Raffaele De Grada illustre storico dell’arte che ha insegnato all’Accademia di Brera, e che scoprì Galletti anche dal versante umano e al quale non finì mai di dire grazie, perché dopo l’8 settembre del ’43 offri il suo appartamento in Via Bagutta 14 a Milano affinchè De Grada potesse nascondersi e continuare la sua opera di organizzatore partigiano. Notizia questa non conosciuta dai più.
Pittore non solo ma uomo colto, amico di Orio Vergani come ho notato dai carteggi, amico di Raffaele De Grada, amico di Leonardo Borgese critico del Corriere della Sera, e amico persino di quel grande scrittore e mio fraterno amico e mentore che è stato Leonida Repaci fondatore del Premio Viareggio (con lui fui più volte in giuria a Viareggio) il quale scrisse un testo in catalogo per la mostra alla pinacoteca del Comune di Monza. Certo, certissimo, Ugo Galetti è stato pittore di notevole capacità e umanità nelle creazioni legate alla cultura lombarda, ha sviluppato la tradizione dei Mosè Bianchi, dei Borsa, dei Pompeo Mariani e degli Eugenio Spreafico, verso tempi più vicini a noi. Fu segnalato da critici illustri, Vergani, Radice, Pica, De Volpi, Trasanna, Canevari, Bertarelli, Martellini, Carrieri, Repaci, Camesasca, Ruggelli e De Grada.
“Le colline di Galetti – ha scritto il poeta Raffaele Carrieri – si illuminano di grigi e di celesti, case che assorbono vapori mattinali crepuscolari e un poco si sciolgono nella calura meridiana, mentre altre restano immobili, fortemente contornate tra alberi e campi sotto un cielo che non conosce languori”.
Nonostante l’esperienza francese e parigina, voluta da Bucci, come si desume da talune lettere al giovane allievo monzese Galetti, questi non si è mai spinto nel terreno artistico e pittorico della sperimentazione, preoccupato di rimanere nel tracciato delle frontiere del gusto, pur conoscendo tutti i movimenti del primo e del secondo novecento. Fiori e giardini, colline, campi, alberi, vallate, sponde, distese d’acqua, monti, paesaggi -il ciclo di Olgiasca- ritagli di Olgiasca, Piona, Corenno sull’alto Lario, prima di Colico, e anche quei paesaggi che già Sironi dipinse a Schilpario in Val Camonica. I suoi paesaggi, i suoi scorci ( vedi Casa di Mamma Rosa), si sono misurati sempre in un caldo naturalismo padano tralasciando di proposito le scansioni novecentesche di periferie e architetture. Un vero e proprio soffio di colore, dovuto a un rosaio, o a un verde boschivo intenso, lo danno vincente a un suo personalissimo modo di intendere la pittura, tutta saggiata in una cornice ottocentesca, non vetusta, ma giovanilmente tradizionale.
È vero -come osservò anche il caro Leonida Repaci- che taluni paesaggi e talune nature morte (vedi La vecchia caffettiera) si apparentano a De Pisis e a Tosi (quest’ultimo benvoluto da Giulio Carlo Argan) “ma non si può onestamente affermare che queste influenze presenti nella sua arte solo per incidenza diminuiscano la sua personalità”.
Uomo e artista, anzi un galantuomo vecchio stampo, capace di parlare senza vergogna anche col cuore, capace di dipingere silenziosamente la sua Brianza, la terra lombarda, i luoghi della memoria, le figure a lui care fermate con ritratti (vedi il ritratto di Bugelli) dove il rilievo della carne, i riverberi della luce, e l’intimità che gli era propria, ne facevano trasparire una significante valenza psicologica. Ho negli occhi i colori dei dipinti di Galletti, i verdi intensi, scuri e metallici, e i carmini, i viola, l’indaco, il cobalto, i toni freddi dell’azzurro, i rossi, i bianchi e i grigi. Un’opera in particolare, “Buoi al carro”, che lascia trasparire non solo la processionalità dei buoi e del carro, ma la famiglia al seguito in uno scorcio paesaggistico vivace in un clima estivo, lascia rimandare a Francesco Paolo Michetti.
E a proposito di opere, non sono da meno le opere pubbliche che ci ha lasciato, ha dipinto pale d’Altare per il capitolo di Casamari a Frosinone, per la chiesa dei S.S. Apostoli di Busto Arsizio, per la Casa Madre della Santa Cabrini, per la Casa Madre Santa Capitanio, ed ha illustrato diverse vite di Santi. Fra l’altro nel 1927 passò un anno in Abruzzo presso il convento di Padre Stanislao dello Spirito Santo per illustrare la vita d S. Gabriele; disegnò più di 100 tavole che utilizzò poi per illustrare il libro su S. Gabriele dell’Addolorata. Gli studi di pittura li aveva compiuti principalmente a Milano e a Roma; in quest’ultima città dimorò stabilmente dal 1918 al 1921 lasciando anche alcuni affreschi conservati nel museo di Castel S. Angelo.
Preziose testimonianze e disseminazione di lavori suoi in tutta Italia come si è visto, al di là di Monza e della Brianza. Non s’era sbagliato Leonida Repaci quando sentenziava in un testo di presentazione per una mostra di Galetti alla Villa reale di Monza: “Il pittore c’è, e notevole, e ch’egli si sia maturato senza sbandamenti, senza fretta, è una conferma delle sue virtù naturali”.
Raffaele Carrieri
"Flessibile ai piaceri dell’occhio la sua mano è uno strumento duttile, un’operaia fedele. Ciò che esiste sembra fatto apposta per essere dipinto. Le acque dolci, il mare e le verdi colline. E tutta questa abbondanza di corolle e frutta: questi gruppi di pesche e nespole, questi paesi sensibili all’irritabilità della luce e tuttavia teneri, confidenziali. Ogni pennellata ha il valore di una ricevuta. Una ricevuta spontanea, ottimamente scandita senza deviazioni polemiche e turbamenti stilistici. La natura sembra creata apposta per provare al nostro amico tutte le facoltà sensorie della sua mano e del suo occhio. Vi sono insistenze cromatiche, riflessioni e aggettivazioni, v’è una volontà di sottolineare la forma per renderla maggiormente leggibile. Ma la consueta inclinazione alla delicatezza lo salva da questi residui d’enfasi. Allora egli può abbandonarsi all’occhio senza commettere peccati di gola. I paesi di collina si illuminano di grigi e di celesti. Le case assorbono vapori mattinali e crepuscolari e un poco si sciolgono nella calura pomeridiana. Paesi volubili alla luce, paesi di lago in cui tutto è decifrabile sotto il sole come in un teatro anatomico: il disegno dei monti e delle valli, l’ottusità delle rocce, le pergole tra le case e l’orizzonte che precipita laggiù con la prolissità di uno scenario. Nell’occhio di Ugo Galetti anche un cataclisma può assumere l’aria invitante di una tranquilla e ben meritata villeggiatura."
Raffaele De Grada
Il mio caro ricordo non si ferma a lui pittore e valido storico dell'arte, ma si estende a ciò che è meno noto: la sua partecipazione a quel momento magico della vita nazionale che fu la Resistenza. Nei giorni bui successivi all'8 settembre del 1943 Galetti, che fu un antifascista d'azione, mi offrì il suo appartamento in Via Bagutta 14 a Milano, affinché io mi ci nascondessi e potessi continuare nella mia opera di organizzatore di un movimento partigiano di massa. Voglio cominciare da questo ricordo perché questo lato della personalità di Ugo Galetti è il meno noto. Tutti lo ricordano per il suo valore di critico d'arte, di attribuzionista e per le sue utilissime opere di enciclopedia dell'arte, uno dei primi a offrire questi preziosi materiali di consultazione. Molti meno sono al corrente della sua attività di pittore di gran sentimento. Pochissimi sono a conoscenza della rischiosa sua attività di antifascista perché egli non l'ha mai vantata anche quando faceva comodo rammemorarla. Galetti, sempre pronto ad aiutare gli amici, come si vede anche dai suoi carteggi (con il generoso Orio Vergani ad esempio), nascondeva quasi la sua attività di pittore. Sembrava quasi che dipingesse a tempo perso, per la sua soddisfazione personale. Gli amici più cari come Leonardo Borgese lo sollecitavano a esporre, a prodursi, a uscire da quello che poteva sembrare un letargo dovuto a timidezza.
Della sua qualità di scultore di efficacia plastica a Galetti è sempre rimasto qualcosa a modificare una pittura che prende le mosse da un naturalismo lombardo che a Monza, la sua città di elezione, aveva trovato un centro rilevante con Mosè Bianchi, Pompeo Mariani, Eugenio Spreafico. Ma il suo vero maestro è stato Anselmo Bucci, che aveva rinnovato quell'ambiante, è Bucci che lo ha iniziato al vero viaggio dell'arte.
Bucci tuttavia amava soprattutto il fervore della citta, fosse Milano o Parigi; Galetti invece ci presenta con un rimpianto struggente i dorsali delle colline briazole ancora intatte dalle eccessive costruzioni che gli si sono sovrapposte. Galetti infatti è stato soprattutto un paesista. Gli piaceva seguire il pendio delle strade che tra cipressi e ulivi vanno a riposare nella conca delle acque, oppure inerpicarsi fino a scoprire la fresca serenità di un borgo che biancheggia oltre gli alberi. I paesaggi di Galetti offrono una sintesi tra i motivi del lombardo Tosi e un naturalismo più distaccato e solenne come in quel paesaggio di lago dove i dorsali dei monti occupano lo spazio col loro volume a dimostrare la potenza della natura.
Egli è stato evidentemente sensibile al costruttivismo novecentesco. Ricordiamo i paesaggi che Sironi dipinse a Schilpario in Val Camonica. Ma Galetti sentiva il colore in modo diverso, come lo ha sentito Anselmo Bucci che fu del resto tra i fondatori del gruppo del Novecento e Dudreville che fu anch'egli tra i primi. L'esperienza francese non entra in modo prepotente nell'arte di Galetti e specialmente non si nota una spinta estemporanea verso le "avanguardie". Piuttosto in alcuni "vasi di fiori" la sua solida tenerezza lombarda si incrocia con la soavità di Renoir e il succo plastico di Manet. Queste "nature morte" di Galetti (alcune deliziose) sono da guardare senza pregiudizio di moderno o di tradizionale, tanto più che vanno collocate, come sempre giusto ma come spesso non avviene, nell'ambito della generazione, del luogo, della personalità che le ha prodotte. Quel che conta è vedere quanto di artistico cioè di una visione concretata dai mezzi della pittura sia in questi paesaggi di Galetti. Il pittore si è chiuso per decenni nella visione naturalistica di motivi paesistici molto spesso alienati da sfondi di lago e di mare volti ad alleviare le scansioni novecentesche di costruzioni e di architetture. Ma Galetti è stato un artista che non si è spinto mai nel terreno infido della sperimentazione e della pura ricerca, si è preoccupato invece che la sua opera restasse un bene durevole oltre le frontiere del gusto. Eppure durante il percorso della sua vita Galetti ne ha viste di "fame" che si sono illuminate come lampade geniali e poi si sono spente nel nulla. Galetti aveva sia come artista che come studioso un preciso concetto dell'arte, oltre non si avventurava perché egli aveva bisogno di vivere le esperienze dall'interno. Galetti, uomo di profonda cultura come è dimostrato da tutta la sua letteratura critica e antologica, ha ben conosciuto tutti i movimenti che discendono dal Bauhaus in poi, ma non si è neanche provato a servirsene per essere à la page, come suol dirsi.
Per quanto l'ho conosciuto e per i colloqui che ho avuto con lui, Galetti conosceva bene e ammirava, per esempio, l'arte di Kandinskj, ma il suo concetto della "forma" era ben diverso. Galetti trovava assurdo che si pensasse che il concetto di "forma" non fosse più collegato a quello di figurazione, all'emozione che ci viene dalla sua essenza esistenziale. L’interesse per il “moderno” si limitava per lui a ciò che gli sembrava certo geniale, ma tutto sommato estemporaneo, non durevole. E pertanto, col pennello e con la penna egli si è battuto contro il "complotto" del modernismo che ha voluto far tabula rasa di tutti i valori che la sua commovente conoscenza dell'Ottocento gli aveva scoperto e fatti amare.
La sua cultura gli aveva rivelato che l'identità dell'arte "moderna", così com'è stata costruita dalla critica e dal mercato, era in gran parte immaginaria, che c'era stata tutta una somma di interessi, aperti e nascosti, per dimostrare che l'arte come ci è venuta dalla tradizione è morta, che gli stimoli della sensibilità hanno preso una direzione del tutto diversa da quella che ci fa vivere il racconto della natura e degli uomini. Bisogna tener conto che nei tempi in cui ha operato Galetti non era ancora stata esaltata quella che Umberto Eco ha chiamato "opera aperta", che giustifica tutte le avventure non dico dell'astratto-geometrico, che è contemporaneo del Galetti, su tutt'altra sponda della sua, ma dell' "aperto informale". Per Galetti l'arte passa attraverso una forma "chiusa", definita e nutrita di una sostanza pittorica che ripete nel riguardante l'emozione provata e realizzata dall'artista. E' strano come queste esperienze d'arte si ripetano oggi, dopo il diluvio dell' "informale", da artisti che sono stati indotti dal gusto in corso ad abbandonare la pittura. Ho confrontato certi fiori di Galetti, così pieni nel loro sentimento della luce, con quelli "fotografati" dal famoso americano Robert Mapplethorpe. Nonostante le immense differenze di paese e di tempi, il sentimento è il medesimo, un godimento quasi sensuale della fisicità della corolla, della foglia, dello stesso vaso.
Ecco, il linguaggio e le tecniche hanno diviso gli artisti nei loro stessi sentimenti che la storia poi ricomporrà perché l'uomo è uno pur nelle sue modificazioni di tempi e di spazi, storiche e geografiche, per intendersi. L'amore dei fiori, dei giardini, l'annotazione di giovani e donne fissate in un momento della loro vita e della loro giornata ha guidato la mano di Galetti per un lungo percorso che in questa mostra si riassume. Per assurdo, sono sicuro che se oggi Galetti fosse vivo e ricominciasse a dipingere seguirebbe la stessa linea senza farsi turbare da ciò che è avvenuto nel frattempo.
Tanto è forte la scelta dell’arte.
Pier Franco Bertazzini
Conobbi Galetti nei primi anni cinquanta in una Monza culturalmente viva, che giustamente pretendeva di assumere, con le Mostre Nazionali di Pittura, un ruolo propositivo nel campo delle arti. Erano allora freschi di stampa, per i tipi della Garzanti, gli splendidi volumi della "Enciclopedia della Pittura Italiana", un'opera monumentale, nella quale Galetti schedava, spaziando storicamente dal '900 dopo Cristo al 1950, tutti i pittori italiani, maggiori e minori, corredati da riproduzioni e da ogni opportuna indicazione bibliografica e critica.
Era Galetti un uomo di cultura profonda e raffinata; la sua attività fu particolarmente ricca e polivalente; fu scultore, pittore, critico, operatore, consulente e perito d'arte, giornalista, scrittore fecondo anche poeta. Inoltre mi piace ricordare che uno che lo aveva conosciuto bene lo definì "un gran galantuomo", nota che sintetizza, illuminandola, tutta una vita spesa ad operare con giustizia e rettitudine.
Aveva cominciato, poco più che ragazzino, a Monza, frequentando il Cenobio, come scultore, sotto la guida di Eugenio Baioni; poi si convinse a praticare piuttosto la pittura, nella quale ebbe maestro Anselmo Bucci. Ho particolari ragioni per ricordare di Galetti la mostra del 1954 all'Arengario. Fu infatti in quella circostanza che ebbi la fortuna di approfondire la conoscenza, conversando a lungo e più volte con Lui e con la gentile signora Ebe che lo accompagnava. Era ormai un artista maturo d'anni e d'esperienza con "una visione calma e riposante dell'Arte". Commentando un giudizio del prefatore della mostra, Raffaele Carrieri, che evidenziava nel pittore il gusto di "trasmettere con la massima sollecitudine la parte più tranquilla e reale del suo infinito piacere", Galetti mi citò Rosai. Ripeto a memoria, con qualche approssimazione: "L'arte è vita, è sofferenza, è dolore e gioia insieme... Niente presupposti teorici, niente teoremi algebrici, l'arte è semplicità, è verità assolute".
A me che, desideroso di indagare e approfondire l'uomo e l'artista, la citazione apparve illuminante, esaustiva; l'artista infatti dichiarava che per lui l'arte è contemplazione, scavo psicologico, meditazione, confessione e molte altre cose ancora, ma anche che l'arte deve scaturire "du fond du coeur", proprio come il grande Manzoni esigeva per la poesia.
C'è in Galetti, a tener legate le prime con le ultime opere in una lunga successione temporale, una costante linea ispirativa che feconda e aggrega.
Questo vale anche per le scelte cromatiche, che naturalmente evolvono, affinandosi, fino ad approdare ai toni freddi dell'azzurro, a gamme di bianchi e di grigi oltremodo tenui e pacate, a verdi metallici: sfumi, grumi di biacca, grigiori di nebbia, chiarori lattiginosi, dissolvenze di toni degradanti, accensioni ed opacità che si alternano in un naturalismo "lombardo" venato di echi romantici, conseguente ad una dichiarata scelta figurativa, personale, però, personalissima nei suoi tocchi oscillanti tra realtà e sogno. Ed in questa autonomia progettuale ed operativa forme, luci, spazi, segni, valori cromatici, fluiscono, accennati e teneri, fissandosi in moduli espressivi, che, pur restando legati al dato reale, vogliono trascrivere un mondo interiore non mai a sufficienza sondato ed esplorato e tradotto nelle sue tensioni e tendenze, nelle sue gioie ed ansie, segrete e profonde.
Nella mostra monzese allestita con decoro negli spazi di "Antologia" c'è tutto Galetti. L'autoritratto è intelligentemente osservato e colto, le figure appaiono costruite con compostezza e pittoricamente evidenti. Pezzi come l'"Autoritratto, la "Fioraia", e in particolare il "Ragazzo meridionale", hanno grande valenza psicologica.
Ma occorre precisare che Galetti, nelle diverse tematiche praticate, ha una sua sostanziale autonomia. "Egli è sboccato alla propria sorgiva".
Le nature morte, fulgide composizioni di vegetali e oggetti, pur impiantate e lavorate con approccio prospettico tradizionale, riescono assai personali, perché vive e palpitanti. Non posso però tacere l'emozione che mi destano i paesaggi: costituiscono per me il miglior Galetti, grande interprete di respiri di zone prative, di certo vedutismo di città, di specchiature lacuali, di notizie boschive. Merita nella pittura di paesaggio di Galetti il primo posto quello che vorrei chiamare "il ciclo di Olgiasca". Chi, come me, conosce bene i colori, nitidi e chiari di Olgiasca, Piona, Corenno, sull'alto Lario, prima di Colico, con le loro case baciate dal sole, circondate di verde e affacciate sulle acque ritrova nelle tele del pittore che ha impegnato il suo talento, la sua prodigiosa perizia tecnica, la rara intelligenza a sentire ed esprimere con emozione sentimentale colline, campi, alberi, vallate, sponde, distese d'acqua, monti, case vibranti d'aria, di luce, di colore.
Sostando in visita davanti ai paesaggi di Galetti mi sento convinto che è in luoghi come questi che il tempo sembra essersi fermato; in luoghi come questi si recuperano a pieno i valori dell'anima e della fantasia. Completa la mostra una scelta serie di disegni e di acqueforti.
Leonida Répaci
Un altro interessante artista è Ugo Galetti, un pittore che sino ad oggi ha preferito vendere i quadri degli altri, piuttosto che produrre frettolosamente, per svenderli, i propri. Ha cominciato con la scultura. Invece di insistere in quella direzione, proprio come le api che lasciano l’alveare quando è pieno di miele, ha cessato di scolpire per votarsi al nuovo amore: la pittura.
Il pittore c’è, e notevole, e che egli si sia maturato senza sbandamenti, senza fretta è una conferma delle sue virtù native.
Sostanzialmente la sua arte deriva da quella ottocentesca e ciò è evidente dal fatto di non sapere esulare da certa esattezza in cui si riconosce il franco amore del vero e la gioia di ritrarlo senza alcun sottinteso intellettualistico. Strano per un vecchio scultore, ma egli è più portato ad approfondire il colore che i valori plastici del quadro, se pure alcuni nudini, che sono tra le cose migliori della mostra, stanno a dimostrare la perizia di Galetti anche su questo terreno. Però la sua qualità più alta risiede nella sicurezza e pulizia disegnativa. È confortante vedere che i giovani non hanno dimenticato questo fondamento di ogni espressione figurativa.
Abbiamo visto nominare professori di disegno figurato persone che non sanno tenere la matita in mano. Per fortuna c’è ancora qualcuno che non si vergogna di saper disegnare.
Nella stessa galleria si è ammirato pochi giorni fa una mostra di Sciltian.
Rispondendo a un bisogno sincero Galetti ha presentato in questa mostra un Omaggio a Sciltian.
La bella calligrafia della natura morta dedicatagli, Galetti l’ha raggiunta nel Ritratto di Buggelli, intelligentemente osservato e colto, e nel dipinto di un Nudo di donna col fiore avvolto in uno stupendo riverbero di luce grigio rosa che dà un bel rilievo alla carne giovine innamorata di se medesima.
Un altro bel pezzo è Donna che si pettina, raccontato con viva gioia carnale, col piacere di chi entra nell’intimità di una donna che è stata o che sarà nostra. Lo stesso piacere, ma confinato nella sfera coloristica, Galetti ha provato dipingendo i fiori. Sono fiori di campo e fanno sentire il loro profumo attraverso la luce che li investe come una pioggia d’oro.
Ugo Galetti, artista, pittore, scrittore, critico - sito ufficiale, realizzato da LBW, mail ledabovio@gmail.com